Abigor – “Fractal Possession” (2007)

Artist: Abigor
Title: Fractal Possession
Label: End All Life Productions
Year: 2007
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Austria

Tracklist:
1. “Warning”
2. “Project: Shadow”
3. “Cold Void Choir”
4. “Lair Of Infinite Desperation”
5. “3D Blasphemy”
6. “The Fire Syndrome”
7. “Injection Satan”
8. “Liberty Rises A Diagonal Flame”
9. “Vapourized Tears”
10. “Heaven Unveiled”

Quello che può essere definito pensiero scientifico porta alla visione, nei fenomeni naturali più grandiosi e sconvolgenti così come in quelli non appena percepibili, di una certa struttura, di un ritmo indefinibile ma frenetico che, celato alla vista e alla più immediata sensibilità, si insinua tuttavia nel subconscio inabissandosi in profonde cavità come piccole goccioline che indefesse battono da millenni lo stesso stremato punto, le cui grida imploranti pietà risuonano inascoltate fra le pieghe della membrana cosmica. Seguendo quindi un processo logico suggerito dal fisico americano Richard Feynman, altrettanto curioso è spostare l’attenzione dalla ingenua e prettamente umana gratificazione della scoperta alla degenerazione più sfrenata e vile a cui può giungere l’ottica antropocentrica in tutta la sua ristrettezza: pensare che la natura stessa rispetti in modo pedissequo quelle leggi, arrivare persino a stupirsi del suo rigore quasi dogmatico in quell’osservanza, come se i ruoli tra oggetto osservato e osservatore si fossero invertiti instaurando una sorta di servilismo perverso. Una volta compiuto quel grave e fallace cambio di prospettiva, vedere in questo schema una sorta di ordine prestabilito frutto di un dio buono e calcolatore, tendente dunque ad una sorta di ordine favorevole alla vita terrestre, è la diretta conclusione a cui giunge una mente umana dagli evidenti limiti intrinsechi, in grado di grattare solamente l’epidermide dell’esistenza tangibile schematizzandola con le grossolane palle di un abaco; e pertanto ineluttabilmente destinata ad inorridire fino a perdere il senno non appena, curiosa e incauta, decida di sporgersi sul tremendo oceano di caos ed indeterminazione strisciante che si annida sotto l’aura idealizzata di un qualsiasi fenomeno.
Gli Abigor di “Fractal Possession” danno inizio alla loro seconda era artistica partendo dalle estreme conseguenze di questo inevitabile smarrimento: dai tumulti sconnessi di un brodo primordiale che è liquame corrotto e nero di una genesi al contrario, in cui nulla avviene in modo procedurale e il Nulla stesso invece prende a sprazzi il sopravvento in bagliori di fagocitante vuoto, presto lasciando convulsamente spazio a vibranti sovrastrutture interconnesse e riavvolte su sé stesse come trame beffarde di un gioco ricorsivo privo di soluzione, che si aggancia qua e là a verità effimere in continua mutazione osservabili con sgomento attraverso il grande vetro del mistero.

Il logo della band

Il processo che porta quindi gli Abigor alla riformazione nel 2007 possiede i tratti di una rinascita a tutti gli effetti, di una ripartenza ancor più evidente se osservata nel momento della stesura di questo scritto, in cui “Fractal Possession” si pone come preciso baricentro temporale nella carriera della formazione spaccandola in quelle che non a sproposito possono essere viste come due ere; due momenti riconoscibili non per via di una rifondazione negli aspetti più basilari e viscerali (per certi versi vi è infatti un continuum invidiabile e unico tanto in una riconoscibilità che resta immutata nonostante paesaggi sonori e strumenti vengano massicciamente rinnovati, quanto nell’aggredire il Black Metal come materia cangiante adattabile alle più molteplici e sulfuree forme luciferine) bensì per una ritrovata linfa, una nuova fiamma da inseguire: un nuovo quadro culturale, filosofico e artistico da cui ripartire. “Satanized”, di sei anni precedente, è infatti l’ultimo vagito, se vogliamo stanco, di una formazione ormai disillusa nonché assolutamente fuori contesto in una Napalm Records il più distante possibile da quella con la quale nel 1994 avevano debuttato su formato maggiore con “Verwüstung – Invoke The Dark Age”: una label connazionale di quello spessore era stata ai tempi la più che naturale strada da percorrere per un gruppo formato da personalità attive su vari fronti artistici sul ristretto suolo nazionale e, fuori da essi, sicuramente ben fiero di condividere lo stendardo di una casata portavoce dei suoni più storti e malvagi di Nåstrond, Setherial e Malignant Eternal; ma spalancate le porte del nuovo millennio gli austriaci appaiono sempre più spersi, separatisi prima da una colonna portante come Silenius, che aveva sputato il proprio livore maligno su ogni singola composizione della band dal secondo disco in avanti, poi addirittura rimasti orfani della mano di Thomas Tannenberger, membro fondante del duo e fondamentale in fase di scrittura, produzion e nella definizione di un riffing come, più in generale, di uno stile tanto sui generis.
Un ritorno da questo evidente sgretolamento poteva solo avvenire con le corrette e dosate componenti alchemiche, con una formazione dispiegata ancora una volta a maledetta trinità, consolidata nel numero ma rinnovata nei membri, fra l’imperituro P.K. e il figliol prodigo T.T. a curarne le solide fondamenta e un ancora misconosciuto Arthur Rosar ad assumere i doveri di una pesantissima eredità dietro al microfono. E quale contesto migliore di quel circolo End All Life Productions / Norma Evangelium Diaboli che, ormai nel complesso attivo da più di un lustro, stava spezzando e ricanonizzando gli intenti più profondi del Black Metal infondendogli una nuova forma di dignità artistica? In un sottile gioco di ammirazione, influenza reciproca e visione comune tra gruppi originariamente in parte ispirati dagli stessi Abigor che finiscono per offrire agli austriaci un nuovo punto di vista con cui affrontare il XXI secolo, band come Deathspell Omega, Funeral Mist ed Antaeus si stagliano quali un collettivo al contempo coeso e frammentario di singolarità, ognuna dotata di uno spiccato pensiero laterale; un movimento dagli elevati intenti comuni inerpicato su sentieri spesso discordanti; un gruppo di menti forti e pensanti in funzione di un fine superiore al pari di un Wiener Aktionismus, dei ragazzi di Via Panisperna, o, molto più banalmente, della Norvegia estrema dei ‘90s.

La band

E il microcosmo pieno di dettagli, ellissi, cambi di riferimento è per l’appunto inquadrato in quel macrocosmo che abbraccia al contempo le serpentine graffianti della quintessenza abigoriana, il portamento misterico e tremendamente minaccioso di un filone Orthodox proprio nel 2007 ancora in via di capillare e decentrata definizione, e una propensione alla ricercatezza tecnica in grado di discretizzare e mantenere stabile quel precario equilibrio di massa critica su cui tutto quell’universo vorticante fa perno, in continuo bilico tra sovrapposizioni di tracce, artifizi analogici e trovate di una brillantezza spiazzante che, tuttavia, non scadono mai nella smaccata ricerca avanguardistica; il tutto sospeso su un pozzo nero di vuoto assoluto, insopportabile gelo e morte.
Sui rintocchi sordi e le pulsioni elettrostatiche di “Warning” si consuma così il primo avvertimento degli austriaci: le nebulose origini di un vagheggiato punto zero, che da ritmiche industriali e spoglie disvela via via quelle sovrastrutture in cui si annida l’oscurità, quel terrore che si manifesta realmente una prima volta in “Project: Shadow”, fra le rincorse frammentarie e sconcertanti di un incedere che viene percepito in prima approssimazione come una versione meno basculante e onirica della follia labirintica di “Fas – Ite, Maledicti, in Ignem Aeternum”, in uscita di lì a qualche mese ma verosimilmente già serpeggiante fra gli adepti del culto NoEvDia, e più improntata ad uno sperimentalismo di deriva tecnica in linea con le più intricate ed estranianti parti dell’unico disco su formato maggiore dei Thorns. Tuttavia simili ed ineludibili riferimenti o un apporto mai così limitrofo ad un’estetica sperimentale e tubolare moonfog-like non vanno erroneamente percepiti come un’influenza o un’interpretazione tardiva di quella corrente, bensì più plausibilmente come i risultati attigui di menti simili e in qualche modo comunemente aggrappate agli appigli di un’avanguardia spesso collegata al progresso tecnologico di quegli anni: nemmeno per un secondo passa per la testa che questa non sia che una degenerazione di ciò che in passato è stato fatto a nome Abigor e le sensazioni alienanti e meccaniche di brani come “3D Blasphemy” o “Vapourized Tears” più si confanno infatti ad un approccio che fa suoi i sussulti sonici dell’IDM, le atmosfere di retaggio maggiormente IndustrialDark Ambient di matrice In Slaughter Natives, fino alle conseguenze più estreme di queste, in un procedimento teorico piuttosto limitrofo ai compagni di label Blacklodge (per quanto ben differente nei risultati).
Ma la tentacolarità che l’opera degli austriaci trasmette è possibile solo grazie ad una delle produzioni più pulite, curate e magistrali di cui questi siano mai riusciti a fornirsi: l’approdo in sede di registrazione ad uno studio di loro proprietà, gli Hell Lab Studios, è da vedersi come uno dei fattori fondamentali per l’abbattimento definitivo di barriere logistiche presumibilmente soffocanti; il pesante distaccamento dai fedelissimi Hörnix, in cui pressoché tutte le registrazioni precedenti erano avvenute e che avevano collaborato alla nascita di vere e proprie composizioni epocali, porta con sé un’infinita possibilità di ritocco e reinterpretazione a smussare la solida base della fulminante idea iniziale. Avanzamenti tecnici, questi, che vanno quindi di pari passo con un’attenzione alla scelta del singolo suono che ha del prodigioso, sia per quello che riguarda gli strumenti tradizionali quanto per tutta l’effettistica accessoria e desueta che riempie di dettagli e vibrazioni l’aria, con delle chitarre nette e chirurgiche a dominare la scena come motore primo della discontinua forma canzone e una batteria dai bilanciamenti miracolosi, perfettamente complementare all’apparato elettronico: i sussulti sinaptici di “Liberty Rises A Diagonal Flame”, tanto sfaccettati, pieni e solidi suonano impossibili in un contesto che non sia di totale dominio di tutti i processi di costruzione del brano. In un progresso che da pratico si fa concettuale in musica, i suoni rimbalzano in questo modo su più piani, prima ovattati e poi detonanti, e lo spettro in frequenza viene tormentato dai contatti sadici e maligni di filtri passa banda che tagliano, sopprimono, otturano e distorcono su più piani, caratterizzando in modo unico passaggi chiave di “Injection Satan” come una matrice di ciò che da questo momento gli austriaci saranno, e traslando questo approccio anche alle vocals, trattate sotto questo aspetto per la prima volta alla stregua di uno strumento; con un A.R. già di per sé pregevole e indemoniato nell’incastrare metricamente un registro tanto ampio di vocalizzi in uno scheletro così complesso, le linee si accavallano in post-produzione in maniera altrettanto libera e ingegnosa dando vita a vere e proprie gemme concettuali come “Cold Void Choir” o “Lair Of Infinite Desperation”.

“Fractal Possession”, nella sua intricata struttura compositiva, manipola dunque quella drammaticità propria anche dei periodi più sinfonici della formazione, destrutturandone però i caratteri peculiari ed elevandoli in comunione ad una nuova declinazione dello spirito ribelle del progetto Abigor: è un’opera che parte da un impianto teoretico per abbracciare nel complesso un nuovo livello della loro infinita devozione al terrore, allo sconforto e alla disperazione come forma d’arte e come concetto metafisico, in cui la più semplice e famigliare armonia in minore viene posta in adorazione e distillata come un raro germoglio di pura e impenetrabile oscurità, per poi evolversi in brevissimo tempo in composizioni dal gran dinamismo dalla sbalorditiva varietà tonale.
Sconcertante alla sua uscita, l’ottava fatica del trio segna definitivamente le caratteristiche di un nuovo corso: pochi anni dopo evolvendosi in modo altrettanto libero ma più compatto e direzionato nell’altisonante unicum speculativo “Time Is The Sulphur In The Veins Of The Saint – An Excursion On Satan’s Fragmenting Principle”, piegandosi per diluirsi in favore di nuove interpretazioni e tonalità da “Leytmotif Luzifer – The 7 Temptations Of Man” in poi. Ma nonostante alla sua pubblicazione le sue strutture reticolari e frammentarie abbiano destato non poca perplessità e contrasto di ricezione, nel più classico caso di parapiglia di giudizi estremi e radicalmente opposti, “Fractal Possession” si è ripresentato in modo sotterraneo nella decade successiva come un pesante precedente da seguire o ripercorrere: si tratti di uscite particolarmente vicine agli austriaci, nel caso del progetto Nedxxx o di “Also Sprach Das Chaos” dei russi Blackdeath, come di altri esempi più distanti a cavallo tra le parti più tangibili della trilogia 777 dei Blut Aus Nord o nei pattern astratti e poliritmici di “A Umbra Omega” dei Dødheimsgard, in cui la libertà e la catarsi spirituale in musica si plasmano in forze opposte gravitanti in violento collasso fra loro, ma assurgendo sempre e comunque ad esempio sfavillante e poliedrico di come la vera e più geniale devozione artistica sia in grado di travalicare decadi, linguaggi e medium.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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